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La settimana Santa e la processione de A’ Sulità

La settimana Santa e la processione de A’ Sulità

A sulità

Ricca di tradizioni religiose è la Settimana Santa, che iniziata con la Domenica delle Palme, con l’atto simbolico di legare le campane, sostituite da rudimentali strumenti di legno i “truòcculi”, che rintonano per le vie del paese. In ogni chiesa durante la Settimana Santa si recitavano in passato canti devozionali in dialetto e preghiere che ancora oggi le donne più anziane tramandano anche sotto forma di nenie.

A proposito di giorni particolari per digiunare, alcune donne, ogni sabato, e in particolare il Sabato Santo, recitano a digiuno alla Madonna, una preghiera, per ottenere sette anni di grazie e d’indulgenza:

Matri celesti celi, c’era ‘na missa cantata, una chi si dicìa ‘natra chi niscìa, dda intra c’era la Vergini Maria chi si la vidìa. Passò lu sò caru Figliu e cci dissi: ‘Matri chi faciti duocu? Vui aviti durmutu, iò haiu patutu! e ccu lu dici a lu sabutu a diunu avi sett’anni di razii e di pirdunu”.

Significativo è il fatto che la morte e la resurrezione di Cristo avvenissero in passato a Gratteri rispettivamente nei giorni del giovedì e del Sabato Santo a mezzogiorno. Il giovedì si svolgeva infatti la tradizionale messa della lavanda dei piedi che veniva chiamata “missa siccàgna” proprio perché non veniva celebrata l’eucarestia.

Una delle più tipiche usanze ormai caduta in disuso era anche quella di allestire nelle varie chiese i sepolcri oscurando le finestre e coprendo gli altari con scuri tendaggi. Al centro di ogni chiesa, sotto l’altare, veniva allestito il sepolcro, adornato con calle e violacciocche “u bàlicu” e con recipienti di vino messo a bollire su bracieri affinché sprigionasse un pungente e acre profumo.

Non potevano mancare inoltre, i tradizionali “laurièddi”, piatti di semi di frumento, lenticchie e fave, messi a germogliare al buio durante le precedenti settimane. I sepolcri erano vegliati da due confrati a turno. La sera del Giovedì Santo tutti i confrati – chiamati “fratielli o babbuini” – andavano a visitare i sepolcri con un caratteristico costume medievale. Essi indossavano una cappa bianca, una corona di spine sulla testa – “cinturieddi” – e una fune di ampelodesma, – a “ddisa” – legata al collo con un nodo scorsoio, chiamata “a pastùra”.

I confrati si avviavano dalle loro sedi in fila indiana, capeggiati dal confrate tamburiere mentre intonavano tutti insieme delle lamentele e canti tradizionali anche in latino come si evince dai Capitoli della confraternita del Carmelo del 1874: “Il Giovedì Santo la sera, circa alle ore 22 si riuniranno tutti i confrati nell’oratorio, i quali adorni di libàno e corona di spine, di unita al Cappellano anderanno a visitare i sepolcri. Nel corso del camino canteranno con interruzione il ‘Miserere’ […]”.

Come spiegano i più anziani confrati, soltanto la Confraternita del Rosario, in quanto i più addolorati, compivano tale rito a notte inoltrata, come segno di lutto. Questi, durante il giorno di Pasqua, entravano in chiesa in fila, capeggiati dal confrate tamburiere che intonava a morto, con la visiera che copriva il volto e che sollevavano solo al momento dell’Eucarestia. Poi, alla fine della celebrazione pasquale, uscivano dalla chiesa a viso scoperto con un rullio a festa.

Da qualche anno è stata reintrodotta l’usanza della deposizione di Gesù dalla Croce. In passato, il superiore della confraternita del Sacramento, aiutato da altri confratelli compiva questo simbolico rito. L’immagine del Crocifisso dalle giunture delle braccia snodabili, veniva staccato dalla croce e deposto con amorevolezza nell’urna. Dopo, veniva preparato per il corteo funebre, mentre delle donne intonavano dei suggestivi canti tradizionali. Commovente è quello ricordato dalle più anziane donne, che ai loro tempi, veniva intonato nella chiesa della Vecchia Matrice:

Gesù vi vìu ‘ncruci chi languìti a causa di li miei gravi piccati, iò sugnu un piccaturi e Vui patìti, iò sugnu dibituri e Vui pagati. Maria Matri d’amuri a nui vulgìti u’ sguardu piatusu e ‘ni salvati

In questa chiesa, infatti, un buon numero di donne anziane intonano, inginocchiate sui banchi, il Rosario dell’Addolorata, una sorta di cantilena in dialetto, snocciolando per settanta volte i grani della corona del Rosario, seguita da un particolare canto del Credo, “U Criedu Romanu”, e dalla Salve Regina all’Addolorata in dialetto. Per ogni grano si intona:

E decimilia voti e sia lodata la bedda Matri Maria l’Addulurata”
“l’Addulurata ‘Gnura, Crucifissu e Maria nostra Signura”.

A ogni fine posta si aggiunge inoltre graduando le decine:
Siemu junti à la (dicina) ppi ludari a ‘sta Rigina, la Rigina di setti dulura ‘ntesta purtava la Santa Cruna, la Rigina Addulurata ‘mpettu purtava la Santa Spata”.

Si ricordi che il numero sette è sacro nella tradizione cristiana: infatti, sono sette i doni dello Spirito Santo, sette i peccati capitali, come sette i pugnali che affliggono il cuore della Madonna.
In passato anche il simulacro dell’Addolorata veniva preparato per l’occasione, allestendo una pietosa immagine della Madonna seduta costituita da un saio di stoffa su cui venivano innestate le mani e la testa in legno e addobbata totalmente da un manto nero e un fazzoletto bianco tra le mani, che tremavano durante il corteo, impressionando i fedeli.

Un aspetto interessante vuole che, le confraternite partono da punti diversi dell’abitato, si incontrano nei pressi della Vecchia Matrice, dove ha luogo il corteo funebre completo. Ognuna di esse porta in processione il suo “mistero”, ossia l’immagine inerente alla Passione di Cristo.

Dalla Chiesa di Sant’Andrea e dalla Matrice Vecchia, intorno alle ore 20:30, i confrati tamburieri, mettendosi sull’uscio del portone delle chiese, in posizione strategica, iniziano a percuotere un antico tamburo di pelle d’animale, con una tipica cadenza a morto, un rullo talmente vigoroso che echeggia per tutto il paese e che viene a creare un’atmosfera mesta, accorata. Intorno alle ore 21.00, i componenti della confraternita della Madonna del Carmelo dalla chiesa di Sant’Andrea iniziano ad avviarsi tutti in fila indiana verso Piazzetta Garibaldi recando l’immagine del SS. Crocifisso.

Il fercolo viene portato a mano dagli stessi confrati che indossano il tradizionale saio dei Carmeliti: tunica bordeaux, con cordiglio e mantellina bianca che scende fin sui fianchi. Essi stringono nelle mani delle catene dai grossi anelli di bronzo, che agitano velocemente per richiamare gli strumenti della flagellazione di Cristo.

In passato, come spiegano i più anziani, tutti i confrati del corteo funebre li utilizzavano per battersi sulla spalla o sul petto, come facevano gli antichi flagellanti nelle loro processioni penitenziali. Sono i membri delle confraternite dunque, ad assolvere questa pubblica funzione di narratori-attori del dramma.

I Santa Niriani lamentano lungo il tragitto verso la parte bassa del paese dove, presso la Chiesa di San Giacomo, avrà luogo il primo incontro con l’omonima confraternita, che reca in processione l’immagine con un altro mistero. Da quest’ultima chiesa l’immagine pietosa dell’Ecce Homo. Il mezzobusto di Gesù, coronato di spine porta i vivi segni della flagellazione: il volto pieno di ematomi e gocciolante di sangue, caratterizzato da un’espressività drammatica e carica di pathos, un mantello rosso sopra le spalle che lascia intravedere una ferita sanguinante dal petto con le mani legate dalle funi e una canna sotto il braccio.

La piccola vara dell’Ecce Homo è addobbata con garofani rossi, violacciocche, bàlicu, fronde di sempreverdi e alloro, e da sei lampade, con rivestitura quadrangolare di carta velina rossa, “u cuoppu”. La vara è portata a mano all’altezza d’uomo da quattro incappucciati per ricordare i soldati che accompagnavano Gesù al patibolo.

Da qualche anno, dalla vicina Chiesa di San Sebastiano si accodano al corteo anche altri due misteri: Cristo flagellato alla colonna e Gesù carico della croce, recati dalle consorelle delle Sacre Spine. Come raccontano le donne più anziane, in passato a Gratteri, venivano recati per il corteo funebre tutti i simulacri relativi alla passione di Cristo presenti nelle diverse edicole votive del paese. Apriva il corteo l’immagine di San Michele Arcangelo che tiene in mano la pisside, simbolo della passione; l’Angelo che apparve per consolare Gesù nell’orto di Getsemani.

La processione del Venerdì Santo è chiamata a Gratteri a Sulità, poiché, secondo la tradizione locale, i confrati sfilano l’uno dietro l’altro in solitudine come il rito che si svolgeva nel 1600 a Siviglia, la Soledad, dal tipico procedere dei confrati salmodianti, in fila indiana – anziché disposti su due file come nelle altre processioni – vestiti dal sacco penitenziale e con in mano un flambò o una lanterna (Scelsi 1981, p.121). Dallo statuto della confraternita di San Giacomo risalente al 1881, si legge:

ogni confrate deve vestire il sacco, visiera e mantello. Il sacco bianco simboleggia la candidezza dei costumi, la visiera indica l’umiltà e il mantello la carità nel compatire i difetti del prossimo e aiutarlo nei suoi bisogni”.

Il corteo attraversa via Fiume e procede verso la parte alta del paese, mentre un numeroso gruppo di donne del quartiere Sant’Andrea, intonano un tradizionale lamento funebre: “Lu Vènniri Santissimu”. Il tema del lamento è “la cerca”, ovvero la ricerca di Gesù da parte della Madonna e San Giovanni. Un canto di dolore quello di Maria, nel vedere il proprio figlio flagellato; l’incontro con il fabbro e lo spasimo della Madonna per la morte del Figlio, che chiede al popolo che le venga portato un nero manto. Simili canti in passato, erano utilizzati a Gratteri anche come nenie, per far addormentare i più piccoli.

Presso Salita Orologio, il corteo si divide nuovamente. Le confraternite con i loro simulacri imboccano uno stretto vicolo per arrivare in chiesa, mentre il Crocifisso e la folla si avviano verso Piazzetta Garibaldi per attendere l’incontro con tutti i misteri. Dopo una lunga fila di confrati, escono le autorità ecclesiali, seguite dall’urna, trasportata a spalla da otto confrati indossanti il caratteristico costume medievale: tunica e cappuccio bianco, mantello porpora.

Un momento fortemente significativo è quello dell’uscita dell’urna dal “dammuso”, quello che era in passato uno degli accessi all’antico castello. Il silenzio è totale. A seguire la lettiga sfilano solitari i confrati della confraternita della Madonna del Rosario, con lo scapolare nero, seguiti dall’immagine dell’Addolorata, trasportata in processione a mano da quattro ragazze, interamente vestite di nero impugnanti le catene. Chiudono i tre superiori della confraternita del Rosario.

Un aspetto devozionale è anche la collocazione dell’immagine dell’Addolorata dietro la banda musicale e tra la folla. Come spiegano infatti i fedeli, la tradizione vuole che la Madre sia in cerca del Figlio. La stessa parola Sulità, (solitudine, malinconia) sia da riferirsi a Maria rimasta sola. In passato, ammantarsi di nero a somiglianza dell’Addolorata e starle vicino dietro il corteo era un aspetto devozionale per la richiesta di una grazia.

È il popolo dunque che, come San Giovanni, si stringe intorno alla Madonna per consolarla, in un caloroso e sentito abbraccio. Un momento altamente suggestivo si raggiunge quando il corteo si immette in Corso Umberto. Spenta l’illuminazione cittadina, il solo bagliore che si intravede è quello delle candele dei confrati e dei simulacri, in un’atmosfera d’altri tempi. Dietro i misteri, le note della marcia funebre infondono nei fedeli un vivo senso di tristezza, sicché la processione procede lenta, solenne, raccolta.

All’arrivo del corteo in Chiesa Madre, ha luogo la predica eseguita dal padre predicatore che sale direttamente sul pulpito. Segue la benedizione solenne, con la reliquia del Sacro Legno della Croce, mentre si ode un rumore incalzante, per l’agitazione dei crepitacoli e delle catene. Al suo termine, la processione si riavvia verso l’uscita della chiesa, e si diparte verso il tratto di Corso Umberto, fino alla Chiesa di San Sebastiano, dove avviene il finale saluto dei Misteri che vengono ricondotti nelle loro rispettive chiese.

I riti della Settimana Santa si concludono la notte di Pasqua con “a calata du tiluni”: una grande tenda di damasco, viene fatta discendere, per mostrare a tutti l’immagine del Risorto. La suggestione popolare voleva che, se la grande tela fosse caduta giù dritta, sarebbe stato auspicio di una buona annata agricola.

Alle donne spetta la preparazione dei tipici dolci pasquali – i “pupi ccu l’ova” – dalle diverse forme: colombe, cestini, cavalli, cuori. Essi sono prodotti con pasta dolce abbellita da una velata di zucchero e dalle coloratissime code di topo, i diavulicchi, molto spesso con un uovo sodo sopra. Anche la presenza dei diavulicchi non è meno significativa. Essi, infatti, alludono il male che è sempre all’erta, ma che viene sconfitto anno dopo anno dal trionfo del bene.

Canto tradizionale del Venerdì Santo

(intonata durante il percorso del Crocifisso dalla Chiesa di Sant’Andrea a Piazzetta Garibaldi)

Oggi ch’è lu Vènniri Santissimu
la Matri Santa si misi ‘ncamminu,
ci scontra San Giuvanni pi la via,
ci dissi: “aunni iti, o Matri mia”.

E aunni vogliu iri, o Giuvanni
Iò cercu a me figliu Nazarenu;
vaiti ‘nte la casa di Pilatu
ca lu truvati tuttu flagillatu.

Tùppi tùppi! Cu è nte stu purtùni?
Rapìti ch’è la vostra Santa Matri!
O Matri Santa nun pòzzu rapìri
sugnu ‘nchiuvatu cu ferri e catini.

O figliu, anni mittìsti i tò capiddi?
Matri, nun l’haiu cchiù mi li scipparu!
E se sapissi quantu ‘ngrati fuoru,
ca pi capiddi spini mi mittieru!

Vaìti anni lu mastru di li chiòva,
faciti fari tri chiòva pi mìa,
nun li faciti né grossi nè fini,
c’hannu a passari sti carni divini!

Arrispunnieru li malaffattura:
gruòssi e pungiènti li sapiemu fari!
La Matri Santa sienti stu parrari,
scurò lu cielu, la tierra e lu mari!

Chiamàtimi a Giuvanni ca lu vogliu
quantu m’aiuta a chiànciri a me Figliu!
Di nivuru purtatimi u cummògliu,
ca iò pirdìvi lu mè caru Figliu!

Ora ca è muortu lu mè caru Figliu
ti benedicu li stinti e li affanni!
Li nuòvi mìsi chi ‘nventri ti tinni,
lu latti chi ti dètti Amùri ranni!

“Criedu Romanu”

Iò criu di l’Apostili
quannu a lu munnu ‘nsignaru
chiddu chi sacciu iò
lu ‘nsignu all’atri.
Iò criu a lu Diu Patri
e a Cristu cridiràu,
unicu figliu sò, nostru Signuri.
È granni lu sò amuri
e lu sò affettu tantu,
cridu a lu Spiritu Santu
e s’incarnàu.
Da Maria nasciu, Maria lu generàu
l’ura quannu aggh’juncìu
a Bettilemmi
e ddi Gerusalemmi patiu sutta Pilatu,
fui ncruci e fui ‘nchiuvatu
e sibbellutu.
A lu limbu è scinnutu
a nnì stannu l’abiati
ccu sò Patri assittatu
a manu ritta.
Judici di minnitta
li boni nati a dari,
li mali avi a castiàri
oh eternu chiantu.
Criu a lu Spiritu Santu
la Santa Chiesa Cattolica
Rumana e Apostolica,
nui cci cridemu.
Dimica vinemu
spartenza e opiri boni
e cc’è la cumunioni
o di li Santi,
e ccu ‘na fidi e tanti
e ccu ‘na spranza eterna,
criu a la vita eterna e cusì sia.
‘Stu creddu c’avemu dittu,
‘stu creddu c’avemu cantatu,
la passioni e morti ha prisintatu,
Viva lu nostru Diu Sacramintatu
Viva lu nostru Diu Sacramintatu.

“Salve Regina alla Madonna Addolorata”

Dio Vi salvi, Regina
e Matri Addulurata
Vi sia raccumannata
‘st’arma mia.
‘Sta razia vurria
di ‘stu me cori ‘ngratu
ferutu e trapassatu
a la me spata.
La mia vita è passata
tra tanti ‘ran piccati
pi grazia priati
a vostru Figliu.
A nui dati cunsigliu
lu stissu cunsigliari
chianciennu a lacrimari
li me erruri.
‘Stu cori chi duluri
spizzatimillu Vui
piccari ‘un vogliu cchiù
chiuttostu morti.
A nui ‘st’arma purtati
‘ncielu gluriusu
oh Matri piatusa eternamenti.
E poi divotamenti
gridannu quannu arriva
viva la Matri viva Addulurata.

Salve Regina Addulurata

Dio vi salvi, Regina
e Matri Addulurata
Vui ‘mpettu la purtati
la vostra spata.
Lu vostru caru Figliu
la cruci s’abbrazzàu
e addossu la purtàu
supra li spaddi.
O Figliu miu ‘nnuccenti
Tu comu l’hai a suffriri
ca pi li peccaturi
a ghiri a patiri.
O dulurusa Matri
Nun n’haiu chi vi fari
Ca di li piccatura
m’ha ‘ffari amari.
O Figliu giustu e santu
Tu a chistu nun pinsàri
ca di li piccaturi
Ti fazzu amari.
O Dulurata Matri
lassatiminni iri
ca s’avvicina l’ura
di lu me patìri.
Figliu tu ti ‘ni vai
mi lassi negli affanni
pi cunfortu mi lassi
a San Giuvanni.
Partemini Giuvanni
videmu unn’amu a ghiri
ca pi li scarbi
o ‘scuru am’a partìri.
Addulurata Matri
‘un haiu chi vi fari
ca lu Munti Calvariu
A ghiri a truvari.

S’ avvicina Maria
cu dulurusa vuci
ca pi li peccatura mè Figliu è misu ‘ncruci
O avari peccatura
chi cuori duru aviti
guardati a lu me Figliu
e nun chianciti.
Quannu lu misiru ‘ncruci
acqua ci addumannau
appi fieli e acitu
e trapassàu.
E prima di murìri
L’uocchi ‘ncielu alzàu
e ppi aiutu chiamàu
l’Eternu Patri
Figliu nun ti partiri
ca su l’ultimi uri
e t’innacchiani ‘ncielu
e aspetti i peccaturi.
È chista l’orazioni
dicemula cu amuri
ludamu per eternu
lu Redenturi.

(Rosetta Di Maio)

Nenia religiosa

Oh Matri Santa di la pietati
‘mbrazza tiniti a Vostru Figliu mortu
datini ‘ntellettu e bona vuluntati
tinitini la storia a bon locu.
E ddu San Pietru chi l’avia niàtu
di la pena tuttu si pintiu,
arriva al postu e prestu fui spiatu
ca cci spiò all’afflittu cori di Maria:
“a lu tò mastru anni l’hai lassatu
‘mpopulamenti nun vinni cu tia?
a lu me mastru lu lassai attaccatu
‘menzu di tanti perfidi Giudei”.
E ora vieni Giuvanni me fidatu,
porta la nova di me Figliu dulci,
“Matri lu vitti a lu Monti Calvariu,
la cruci ‘ncuoddu e li chiova alli manu”.
Tutti li Santi a vidiri lu javunu
e javunu chianciennu a gàvuti vuci,
Ittati ‘na vuci Vui oh Matri mischina
ca Vostru Figliu ha fattu ‘na funtana.
Funtana funna di milli scaluna
a Vostru Figliu ci misiru la cruna.

Rit: E ccu lu dici tri voti lu jornu
un n’avi paura di peni d’Infernu.
E ccu lu dici tri voti la notti
un n’avi paura di la mala morti.
E ccu lu dici tri voti la simana
Iò peccu, Maria prega e Diu ‘ni pirduna.

Maria di n’attu a notti n’appi nova
mentri sò Figliu ran peni pateva
la porta a lu furgiaru aperta era
Idda cci dissi: “chi fai mastru astura?”
“fazzu ‘na lancia e tri spunta ddi chiova
ca servunu ppi lu figliu di Maria”.
Idda ittò un suspiru supra u scogliu
sula sulidda senza lu sò Figliu
“chiamatimi a Giuvanni ca lu vogliu,
quantu m’aiuta a chianciri a mmè Figliu”

Rit. (Antonina Lazzara)

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