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Monaci alchimisti e racconti di creature misteriose della tradizione popolare siciliana

Monaci alchimisti e racconti di creature misteriose della tradizione popolare siciliana

A Gratteri, negli ultimi venti anni, sono stati raccolti diversi etnotesti grazie ad interviste ai più anziani abitanti del villaggio che hanno narrato affascinanti storie popolari caratterizzate da suggestive credenze che si sono tramandate nel tempo fino ai giorni nostri. Molte di queste vedono come protagonisti i canonici del monastero di San Giorgio che, secondo i loro racconti, praticavano riti alchemici e singolari incantesimi.

Sulla condotta di quei monaci che vivevano da eremiti in quella medievale abbazia ubicata in un fitto bosco abitato da lupi, si alimentavano storie misteriose che sembrerebbero venute fuori da un celebre romanzo storico ambientato nel Medioevo come Il Nome della Rosa di Umberto Eco.

Alcune anziane donne del paese ad esempio, raccontavano che questi monaci eseguivano un rito particolare per curare singolari malattie utilizzando le scintille di due pietre focaie.

Questa pratica venne appresa, in seguito, dalle donne del villaggio che curavano ancora, fino a qualche tempo fa, l’herpes zooster – comunemente chiamato “fuoco di Sant’Antonio” – sfregando due pietre focaie dette “firrigne” e facendo ricadere le faville sulla parte del corpo arrossata (Lucia Cirincione, classe 1923, intervista 2007).

D’altra parte, invece, esistono delle popolari credenze che riguardano spiriti di donne imprigionati nel corpo di piccoli animali come i rospi – buffe (bufonidi) – che risulterebbero di straordinario interesse antropologico. Simili racconti, tuttavia, si attestano in diversi centri del territorio siciliano, retaggi di sincretismi culturali molto antichi.

Elsa Guggino ad esempio, che ha insegnato Antropologia Culturale e Tradizioni Popolari dell’Università di Palermo, spiegava che si trattasse di “strane figure femminili di natura extra-umana, credenze siciliane di ascendenza millenaria che si intrecciono al vivere degli uomini – i Donni – spiriti che vagano nell’aere, anime di persone morte che continuano ad aggirarsi o che dimorano stabilmente nei luoghi in cui è stato esalato l’ultimo respiro (Guggino Elsa, op. cit. p.73).

Di loro, il celebre antropologo siciliano Giuseppe Pitrè scriveva: “sono un po’ streghe un po’ fate, senza potersi veramente discernere in che veramente differiscono le une dalle altre” (Pitrè Giuseppe, op. cit., p.153).

La stessa Guggino, aggiunge: “vi sono diversi tipi di donne come quelle di locu, una specie di serpenti, lucertole: sono delle streghe buone che vagano nelle campagne. Se qualcuno le uccide, le spacca a metà ed è in agonia, non può morire; si dice perché ha spezzato una vipera, una donna di locu. Queste donne si trasformano in serpi o in rospi” (Guggino Elsa, op.cit. p.73).

A proposito di questi anfibi, alcuni anziani di Gratteri asseriscono che, nel caso in cui si dovessero trovare ad intralciare la via, sarebbe sempre opportuno non toccarli o peggio ancora importunare, poiché a causa della loro vendetta, si potrebbe rimanere zoppi, “ciunchi” (Maria Antonina Cirincione, classe 1913, intervista 1999).

Delle volte, questi rospi potrebbero anche presentare delle piccole trecce, i -“trizzi di donni” – ma, ad ogni modo, non vanno mai molestate o addirittura uccise per non ricadere nella loro maledizione (Antonina Lazzara, classe 1922, intervista 2007).

In tali circostanze sarebbe opportuno dunque riconoscerle, pronunciando la seguente formula apotropaica: “Se si donna ti ‘ni vai, se si buffa resti ccà!” (“Se sei una donna te ne vai, se sei rospo resti qui“) (Giacomo Lanza, classe 1909, intervista1993).

Le donne transustanziali siciliane, chiamate donni di fora, possono operare con gli spiriti o andare in volo in forma di spirito: in queste occasioni in cui viene meno la loro forma umana esse, come anime, si identificano parzialmente con queste ultime e compiono atti che normalmente fanno gli spiriti, accompagnandosi e uniformandosi a questi: si incontrano in forma di bisce e buffi (rospi) nelle campagne, come i demoni campestri, o nelle sembianze di gechi sulle pareti di casa, come gli spiriti domestici.

Quali demoni dei boschi, esse ballano e cantano nelle foreste, o sono viste presso fonti d’acqua, e in qualità di anime delle case, spostano i bambini, apportano malattie e fortuna alle famiglie che vi abitano (cfr. PITRÈ 1889, 1896; GUGGINO 2006; già in MANNELLA 2019).

In passato, a Gratteri, erano frequenti e speculari anche quei racconti popolari che vedevano protagonisti dei gatti, detti popolarmente mammoni, che i più superstiziosi allevavano poiché credevano di allontanare o vanificare un influsso magico maligno (Giuseppa Lanza, classe 1922, intervista 2005).

A tal proposito, un caso del tutto inatteso emerge dalla consultazione di alcuni manoscritti custoditi all’Archivio di Stato di Palermo, dove è stato individuato un documento databile al 1402 che indica una via pubblica o contrada chiamata Gatti Maimoni nel territorio di appartenenza del barone di Gratteri: “…ex parte septemtrionis juxta viam publicam que dicitur gatti maimoni ex parte occidentis juxte viam que dicitur anticate…” (ASP, Belmonte, Vol. 93, anno 1402).

Secondo alcuni studiosi, la tradizione del “gatto mammone” affonderebbe le sue radici tra la civiltà dei Fenici (dio Maimone) o nell’Antico Egitto, in cui i gatti erano animali sacri e simboli di fertilità (dio Amon).

Con l’avvento del Cristianesimo poi, questi antichi rituali pagani sarebbero stati prima demonizzati e in seguito racchiusi nel Carnevale che precede la Quaresima, ed i loro simboli trasformati in maschere.

Nell’isola di Sardegna, ad esempio, è ricorrente il legame del termine Maimone (con tutte le sue varianti) con numerosi toponimi relativi a fonti e/o sorgenti, legame forse derivante dall’antica parola fenicia “mem” (in ebraico, “mayim“), che significa appunto “acqua”, e ad una divinità ad essa collegata, e che si ritrova anche in varie altre località del Mediterraneo (CRESTI MATTEO COSIMO, op. cit.).

Il nome deriverebbe dall’incontro del termine gatto (animale che nel Medioevo associato al diavolo) e maimūn (che in arabo significa ‘scimmia’) (Devoto Giacomo, op. cit.) o anche mammona, parola dall’incerta etimologia che in lingua aramaica è attribuita al demonio (Cresti Matteo Cosimo, op. cit.).

Nella tradizione popolare tale gatto dall’aspetto terrificante sarebbe stato infatti dedito a spaventare le mandrie al pascolo e avrebbe e avrebbe avuto movenze ed espressioni demoniache (DFI). In altre narrazioni invece, ha funzione protettiva ed è uno spirito positivo, immune agli effetti nefasti degli incantesimi di altri spiriti (DLI alla voce gattomammone). Ad ogni modo, la favola del Gatto Mammone fa parte del folklore italiano, tanto da ritrovarlo sia nelle fiabe sia nella letteratura sin dalle sue origini.

Infine, una particolare leggenda popolare di straordinario interesse antropologico legata a culti totemici è anche quella riportata nei versetti siciliani de “I Misteriosi sogni” di Ciccu Di Maria, poeta dialettale gratterese vissuto agli inizi del ‘900. Quest’ultimo parlava di un antico racconto, appreso da un’anziana signora di Gratteri, Donna Caloria La Tosta (Di Maria Francesco, versi 1-43).

Secondo tale narrazione, in principio, quando gli Dei (che considera i Santi) discesero sulla Terra per dividersela fra di loro, ebbero luogo dei violenti litigi, tanto che per scampare ai pericoli, decisero di assumere le sembianze di animali: Giovanna in volpe, Vito in cane, Silvestro in lupo, Marta in gatta, Zaccaria in topo, Erasmo in asino, Pasquale in pecora, Isidoro in toro e via di seguito.

Da quel momento in poi si disse che gli animali parlassero, ma in verità, erano gli Dei che avevano assunto le loro sembianze. Fu per tale motivo che i Santi divennero in seguito protettori di quei determinati animali (Ibidem). Questo, come tanti altri simili racconti della tradizione popolare siciliana, non è altro che un retaggio culturale di storie millenarie, sincretismi di popoli e culture differenti che si sono stratificati nei millenni.

Marco Fragale
(Università di Palermo)
Bibliografia:

ALINEI MARIO, Dal totemismo al Cristianesimo popolare, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1984

CRESTI MATTEO COSIMO, Fate e folleti della Toscana, a cura di CARDINI FRANCO, Firenze, L.P. Editore, 2012

DEVOTO GIACOMO, Avviamento all’etimologia italiana, Milano, Mondadori, 1979

DFI: Dizionario della fiaba italiana a cura di GIAN PAOLO CAPRETTINI, ALESSANDRO PERISSINOTTO, CRISTINA CARLEVARIS, PAOLA OSSO, editore Meltemi, 2000

DI MARIA FRANCESCO, Misteriosi sogni – Versetti siciliani, 1904, versi 1- 43 – Palermo, ristampa 2008

DLI: Dizionario della Lingua Italiana – gattomammone, in Il Sabatini Coletti a cura di FRANCESCO SABATINI e VITTORIO COLETTI – Corriere della Sera, 2011

GUGGINO ELSA, Fate, Sibille e altre strane donne, Sellerio Editore Palermo 2006

MANNELLA PIER LUIGI JOSE’, Trizzi di donna, tra etnopatia e virtù, in Etnografie del contemporaneo ANNO 1 n. 2, 2019 – Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari –
Museo internazionale delle marionette “A. Pasqualino”, Palermo.

PITRÈ GIUSEPPE, Costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Vol. 4, Palermo 1889

PITRÈ GIUSEPPE, Medicina popolare siciliana, Clausen, Torino-Palermo, 1896

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