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Gratteri greco-romana: alle origini del toponimo Krater

Gratteri greco-romana: alle origini del toponimo Krater

Ad oggi, per cercare di ricostruire la storia del territorio di Gratteri durante il periodo antico (greco e romano), non è possibile avvalersi, purtroppo, di testimonianze archeologiche importanti ma soltanto di esigui reperti, come ad esempio, una moneta romana del II secolo d.C. ritrovata in contrada “Suro” custodita oggi nel museo “Minà Palumbo” di Castelbuono.

Secondo alcuni studiosi, il toponimo – di origine araba (sùr = muro di cinta di una città) – potrebbe rinviare, in maniera intuitiva, all’esistenza di un insediamento urbano sul sito (Di Francesca P., p. 13). Un’altra significativa informazione relativa al territorio grattarese durante l’epoca romana trapelerebbe anche da uno studio sulle strade romane di Sicilia condotto dallo studioso Luigi Santagati che, riferendosi al periodo delle invasioni arabe in Sicilia, sostiene fermamente che “Gratteri era posto al controllo e alla difesa della strada romana” (SANTAGATI L., op. cit., pp. 242, 305, 325).

Lo storico nisseno, nella sua considerevole opera sull’antica viabilità isolana, ricostruisce quello che doveva essere il tracciato della Sicilia romana, asserendo che l’antica strada costiera romana partendo da Palermo deviava a Termini verso l’interno a causa dei terreni impaludati alla foce del fiume Imera e, passando nei pressi di Collesano (Qalat ‘as Sirat) e attraversando Gratteri (Krateras), giungeva a Cefalù, utilizzando alcuni ponti romani per poi puntare verso Caronia (Calao) e Sant’Agata di Militello (Agathinon) (SANTAGATI L., p. 305).

A proposito di una postazione militare di epoca romana sulla via montana che porta ad aggirare Cefalù, lo studioso osserva:

Per bloccare le strade che portano da Palermo verso il val Demone ed i Siracusano, ritengo sia stata anche costruita la postazione militare che Idrisi chiama Qalat ‘as Sirat (Rocca della Strada) posta nei pressi dell’attuale Collesano in grado di controllare gran parte della vallata del fiume Imera e soprattutto la strada che porta ad aggirare Cefalù e portarsi sulla costa tirrena ed alla strada romana che portava a Messina” (SANTAGATI L. op. cit., p. 239).

In realtà, la tesi di Santagati potrebbe essere suffragata dall’esistenza di un’antica “trazzera” con lastre di pietra levigate che si individuerebbero ancora nel bosco detto della Ficaricchia, nel territorio di Collesano, che sembrerebbe ricongiungersi ad un sentiero nei pressi dell’abbazia di San Giorgio, per poi salire fino a Gratteri dal “passo della Scala”.

Da lì, probabilmente procedendo per Via Roma o Maestra (dove veniva attestato un fondaco per il ristoro dei viandanti), essa attraversava l’abitato fino a ricongiungersi ad un confine chiamato popolarmente “A Tribbuona Ranni”, dove anziani pastori raccontano che ancora fino a qualche secolo fa, in quel punto bisognasse pagare un pedaggio per proseguire il cammino (Vincenzo Sausa, classe 1928, intervista 2019).

Su quanto asserito, purtroppo, allo stato attuale delle ricerche, è possibile avanzare soltanto delle mere congetture. Per quanto riguarda la presenza di fondaci, invece, sappiamo che in passato questi venivano considerati strutture di controllo della viabilità e di scambio commerciale ubicati solitamente in luoghi importanti per la viabilità.

Difatti, nei Riveli di Beni e Anime della terra di Gratteri viene già attestato un fondaco alla fine del 1500, nel quartiere della “Bucciria Vecchia” a ridosso dell’attuale Via Roma:

Dominica Palmerj (vidua) capo di casa, Jacobo figlio soldato di anni 32 – rivela una casa terrana a la strata di la buchiria vechia confinanti con lo fondaco dello Ill.mo don Petro XXlia et strata publica” (ASP, Real Patrimonio, v. 1167, anno 1584).

D’altra parte, dati significativi dell’età ellenistica emergerebbero invece dalla toponomastica del territorio, che presenta numerosi microtoponimi ufficiali e popolari di chiara etimologia greca, come lo stesso toponimo Gratteri, che deriverebbe dal greco antico κρατήρ ‘cratere, coppa, calice’ nel significato geomorfico di ‘conca, bacino’: cfr. Grattera Pirri 495 (a. 1082), 389 (a. 1132), 393 (a. 1151), Gratera DCM 2 (a. 1087), DIN 82 (a. 1159), Grateria ib. 57 (a. 1145), ar. q.ratiris Edrisi 60, BAS I 125, Graterium TabBelm 11 (a. 1201), Gratterium RRS I 12 (a.1282), la Grattera Barberi Ben. I 218 (CARACAUSI G., op. cit. I, p. 754).

Ad ogni modo, che ci fosse un insediamento urbano più antico risalente al periodo tardo antico, non possiamo presupporlo, anche se, uno studio in corso, ipotizzerebbe invece un villaggio indigeno primitivo in situ  probabilmente nell’area dell’antico castello, che fino al sec. XVII veniva ancora denominata il quartiere “la terra vecchia” ed oggi Conigliera (FRAGALE M., op. cit.).

Nel Medioevo, infatti – come è ben noto – i castelli venivano edificati molto spesso sulle acropoli delle antiche città. Del resto, la presenza di una suggestiva grotta con una fonte d’acqua salutifera non poteva di certo passare inosservata dalle popolazioni indigene che abitarono quel territorio sin dall’età preistorica, come si evince da un ripostiglio di oggetti di bronzo rinvenuto in loco nel 1920 e risalente all’epoca di transizione dalla tarda età del bronzo alla prima età del ferro dell’Italia continentale (Atti della Reale Accademia di Scienze, Lettere e Belle Arti di Palermo – Terza serie, anni 1923-24-25, Vol. XIII, Palermo Scuola Tip. “Boccone del Povero” 1926).

Tuttavia, al di là di mere ipotesi, allo stato attuale delle ricerche archeologiche, sembrerebbe che – pur trovandosi il territorio gratterese in prossimità delle antichissime città di Kephaloidion (Cefalù), di Himéra (Imera scavi, Buonfornello) e di Halaisa (S. Maria di Palate, in territorio di Castel di Tusa) – non ci siano agglomerati urbani se non a partire dal periodo tardo-romano, barbarico, o, addirittura nella prima età bizantina, verosimilmente quando per i siciliani, tra il II e l’VIII secolo d.C., come è stato osservato, “disperdersi nelle plaghe più remote e inaccessibili di una terra dendròdes kaì kremnòdes rappresentò forse per molti la via più immediata, se non l’unica, di vita e salvezza” (Cfr. MAURICI F., op. cit., p.15).

Pertanto, ad oggi, sarebbero da escludere quelle teorie che farebbero risalire le origini di Gratteri a un’epoca lontanissima, addirittura a prima che in Sicilia venissero i Romani e a dopo che sulla costa ionica nell’anno 734 a. C. sbarcasse Thukles con i propri coloni greci. Ci riferiamo in modo particolare, alla menzione che ne fa il Pugliese quando, nella sua descrizione geografica della Sicilia, citando Stefano Bizantino – storico fiorito sotto l’imperatore Zenone nel V secolo dell’Era Cristiana – sostiene in maniera convinta che Crater sia Aterium, città distrutta, sulle cui rovine poi sorse Gratteri:

Dopo molte miglia da Cefalù, viene il fiume di Pilato, che vuotando pria per levante bagna Lascari, Lascaris; poi piegato per ponente lascia Madonna di Gibilmanna da Gebelman, mons manne; e indi curvandosi per oriente rinfresca il ponente di Gratteri, Crater, ove fu Aterium d. da Stefano, e presso Gratteri fu Kalath Asserat d. citato, e giunge all’occaso del divisato Isnello”. (PUGLIESE V., op. cit., p. 49).

Dello stesso parere è lo storico locale Isidoro Scelsi che menziona Craterium e Aterium, ipotizzando una corruzione di un testo originale della stessa località. Lo studioso, infatti, citando una tavola bizantina di un antico manoscritto custodito alla Biblioteca Comunale di Palermo, riporta: “Craterium, aliquot incerta positiones loca, vel textus corrupti, que ad hanc etatem preferenda videtur” (LO FASO, Mns. Qq. H. 148, Bibl. Com.le di Palermo).

Ed ancora: “Craterium, città della Sicilia di sito incerto” (IBIDEM). In un altro manoscritto invece ha riscontrato altre due dizioni equivalenti: “Aterium, oppidum Siciliae, eius oppidanus Aterinus dicitur” (Aterio, castello della Sicilia, i cui abitanti si chiamavano Aterini) (Mns. Qq. D. 82 Bibl. Com.le di Palermo) così ugualmente per “Crater, i cui abitanti si chiamavano Craterini” (SCELSI I., op. cit., p. 34).

In realtà, Stefano di Bisanzio, a cui il Pugliese e Scelsi fanno riferimento, nella sua Etnica (Ἐθνικά), enumerando tutte le antiche città di Sicilia esistenti al suo tempo, cita ben 115 insediamenti (ripresi da Manni, Geografia ed Holm, Storia I, 494) molti dei quali non sono stati ancora localizzati come è il caso di AterionAteriòn os ‘Pegiòn” e Kraserion (corion) “Khorìon…tò ethnikòn Kraserinos” (BIZANTINO STEFANO, Ethnicorum ex recensione August Meineke, Berlino, 1849).

D’altra parte, però, alcuni studiosi come Luigi Santagati, sostengono che molti dei siti riportati da Stefano, risulterebbero in una certa misura non attendibili in quanto senza possibilità di riscontro e, forse, appartenenti ad altre regioni italiane (SANTAGATI L., op. cit., p. 137). Difatti, il testo di Stefano Bizantino, oltre a riportare nomi alterati e corrotti spesso profondamente, recherebbe anche nomi di città indigene e greche scomparse ben prima dell’epoca dell’opera (IBIDEM).

Tra l’altro, un altro riferimento da escludere sarebbe anche quello che ne dà Scelsi, sostenendo che nella Cronaca sicula-saracena di Cambridge (LAGUMINA B., Op. cit., Palermo 1890), sia citata Craterius, fortezza di Sicilia di cui parlava Filisto – il quale a sua volta, prendeva a modello Tucidide: “Craterius, oppidum Siciliae de quoi Philistus libro VIII” (SCELSI I., op. cit., p. 32).

Non solo, infatti, nella suddetta opera tradotta dal Lagumina non vi è alcuna menzione, ma, Filisto – storico siracusano contemporaneo di Platone e autore di una storia della Sicilia dalle origini al 362 a. C. – non poté dedurre dallo storico ateniese quella citazione (come invece sostiene lo studioso gratterese), per il fatto stesso che Tucidide, nella sua opera sulla Sicilia, non nomina mai né Craterius (Gratteri), né Parapo (Collesano), né Apollonia (Pollina) né Xillatu (Scillato) né Alesa (Tusa).

Krasérion, infatti, e non Kratérion, il cui etnico si legge nel frammento 33 dello Jacoby (Fragmente der griechischen Historiker, Berlin 1923 sgg.) ma anche in Stefano di Bisanzio, s.v. (“Khorìon…tò ethnikòn Kraserinos”), a parer di Marchese non avrebbe nulla a che vedere con Gratteri (MARCHESE A., Gratteri e Gibilmanna, in attesa di pubblicazione).

In verità, visto che il toponimo si potrebbe collegare soltanto con Akrai, bisognerebbe ricercare questo Khorìon nella Sicilia orientale (Cfr. Pace, op. cit. p. 181, n.1). Con ciò non si intende dire che il territorio gratterese fosse stato nell’antichità classica terra da hic sunt leones, ché, anzi la stessa toponomastica comproverebbe il contrario.

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Circa la storia del toponimo Gratteri, ad esempio, l’abate Passafiume, storico cefaludese del 1600, fa derivare l’originario toponimo “Cratos” o “Craton” dai rilievi montani che sovrastano il territorio di Cefalù. Questo l’Incipit tradotto dell’Opidum berillo nobile Gratterium, il quale faceva parte della diocesi di Cefalù fin da quando essa fu creata:

Il territorio sul quale si estende la diocesi di Cefalù è reso più bello, dalla parte di occidente, dal monte che, se da Tolomeo viene chiamato Craton, dagli altri viene indicato ora con il nome di Moron, ora con quello di Nebrodi. La maggior parte delle persone, però, è solito chiamarlo con quello di Madonia…” (Cfr. PASSAFIUME B., op. cit., p.53 sgg.).

Questa ipotesi viene avanzata anche dal Maurolico, nella sua opera storica sulla Sicilia: “Craterium oppidum juxta Cephaledem fortasse dictum à nomine montis qui Cratos dicitur” (MAUROLICO F., op.cit.).
Ad ogni modo, su quanto precedentemente asserito dagli storici del passato, è necessario aggiungere qualche doverosa osservazione.

Le fonti che il Passafiume cita (testo e nel lemma della pag. 53), sono Plinius, poi Abbas in Caro e infine li Pyrr. (riportate così come vengono trascritte). Tuttavia, nella su Geographia, trattando della Sicilia, Tolomeo fa il nome di due soli nomi, l’Aìtne e il Kràgas (“i monti della Sicilia da menzionarsi sono due, l’Etna e il Kragas” PTOL, III, 4,5).

Quest’ultimo è stato sempre identificato – per via delle sue coordinate geografiche 37° 40’ 36° 40’ – con un monte della Sicilia occidentale. Il Muller pensa al Caragi o Caraci (6 km a est di Prizzi e 10 a nord-ovest di Castronovo): “nomine et situ inter Panormum et Agrigentum medio referendus est ad hod. M. Caragi prope Castronovo et Lercara oppido” (Cfr. Muller, Ad Ptol, ibidem).

Lo Holm invece lo identifica con il M. Rose, a nord di Bivona (Cfr. A. Holm, op. cit., I, 50), mentre il Manni, da ultimo, con il M. Cammarata (Cfr. E. Manni, op. cit. p. 84). Giacché, poi, alcuni codici hanno Kràtas, c’è chi pensa al M. Grada (Cfr. G. Alessio, in BSC, 1946-47, 35 e BFLS, 1956, 326).

Pertanto, ammesso che il Craton del Passafiume debba stare per Kratàs, il richiamo a Tolomeo appare del tutto fuori luogo, oltre che errato nella sua identificazione con la montagna madonita. Questa dai latini fu chiamata Maroneus mons, come chiaramente fa capire il noto passo pliniano in cui viene detto che “la cenere ancora ardente dell’Etna in eruzione giunge sino a Taormina e Catania, mentre il fragore arriva sino al monte Maroneo e ai Colli Gemelli”: “favilla (scil. Aetnae) Tauromenium et Catinam usque pervenit fervens, fragor vero ad Maroneum et gemellos collis” (PLIN., N. h., III, 8 (14). 88. Moron,).

Detto ciò, è possibile continuare a seguire le orme dello stesso Passafiume:

A otto miglia da Cefalù, andando verso occidente, proprio alle falde del monte della Madonia, di cui abbiamo testé parlato, si trova Gratterio. I cristalli di berillo (scil.: che talvolta si trovano nel suo territorio) lo hanno reso famoso. C’è però chi a questo piccolo paese madonita dà il nome di Cratere, facendolo derivare da quello della montagna che chiamano Craton, o, come ad altri piace, dal cratere di pietra che, nella grotta vicina alle case del paese, è stato collocato con grande perizia tecnica non dalla mano dell’uomo, ma dalla natura stessa. Tale grotta ha infatti, nella sua parte più interna, un blocco di pietra a forma di pilastro, alto 16 piedi e largo 10, sulla cui sommità c’è uno spazio vuoto, che ha appunto la forma di cratere. Esso è stato formato dal perenne stillicidio dell’acqua, dalla quale viene riempito. L’antro di cui stiamo parlando ha un’apertura abbastanza grande ed è volto a settentrione. Da qui le sue parti, quelle che sono più all’interno e che sono volte verso tramontana, ricevono luce in quantità più che sufficiente. Un altro grande orificio c’è, inoltre, dalla parte di oriente: la natura stessa vi ha scavato infatti una grande volta di pietra” (B. Passafiume op. cit. trad. A. Marchese).

Appare evidente che l’abate cefaludese intendesse descrivere, dando un chiaro segno di averla vista, la grotta che dalla gente del luogo viene chiamata “Grattàra” e che è sita a non più di 300 metri, in linea d’aria, a sud-ovest di Gratteri, tra il suo abitato, nel punto più alto del paese, e la cima di Pizzo Dipilo (m. 1385), a un’altitudine di 1000 circa.

Lo storico cefaludese, ricordava la grotta Grattàra, come altri scrittori del tempo, perché pensava che essa abbia comunque a che fare con il nome del paese, le cui prime case incominciarono a sorgere, probabilmente in epoca bizantina, in quel fazzoletto di terra che si distende tra il vecchio castello, la Scala, il torrente che vi scorre nella parte sua più bassa, e il burrone chiamato Bocca d’Inferno.

E non è solo il Passafiume a pensarlo, ché anche altri sono di questo parere e tra questi c’è quello dell’abate Rocco Pirri – il più grande storico della prima metà del 1600 – sostenendo che l’antico paese di Gratteri trae il suo nome da Cratere, cioè dalla conca che è famosa per l’acqua perenne che vi stilla:

Gratteris antiquum oppidum a Cratere ob perennem stillantem aquam celebri dictum, Berillo lapide nobile”, (PIRRI R., op. cit., p. 839). Non dello stesso parere è però Vito Maria Amico che, accogliendo tale interpretazione etimologica del Pirri, non manca di ravvisare nel toponimo una origine saracena, parlando di “grotte che diffondono limpidissimi gorghi nel suo territorio ed anche crateri dai quali scaturiscono delle acque sommamente purgative, dette volgarmente di Bevuto” (dall’arabo buyut ‘acqua salutifera’) (AMICO V. M., op. cit., p. 544).

Da quanto detto sopra, si deduce che sempre nel toponimo, che vediamo registrato negli antichi scrittori o nei documenti tramandatici, è presente la radice crat-, che non si può fare a meno di ricollegare a crater (= cratere, vaso, coppa), latinizzato cratera dal greco Kratér riconducibile a kerànnymi (= mescolare, specialmente acqua con vino, come usavano fare gli antichi greci e latini, a sua volta riconducibile al sanscrito crinati).

Se accettabile, dunque, apparirebbe la derivazione del toponimo Gratteri dalle forme latine e greche che indicano il cratere, e cioè dal gr. Kratera e dal lat. Cratera e crateram, per indicare – come dice giustamente il Pirri – il cratere e l’acqua che vi stilla dalla volta soprastante della grotta, del tutto fuorviante sarebbe l’interpretazione che ne dà il Passafiume quando dice: “Cratere, dal nome della montagna che chiamano Craton (Cratere, a monte Craton)” poiché Pizzo Dipilo (già monte Pilato), la montagna a nord-ovest del massiccio madonita ov’è la grotta con il suo crater lapideus, non ha mai avuto Craton quale oronimo (MARCHESE A., op. cit.).

In conclusione, coglierebbe nel segno chi accetterebbe l’interpretazione che mette in relazione di dipendenza il toponimo gratterese sia con il “cratere dal perenne stillicidio dell’acqua”; sia dal Crati, il torrente che scende da Pizzo Dipilo – dove si affaccia la Grotta – e attraversa l’abitato; sia infine, dalla geomorfologia del suo territorio: una conca delimitata da occidente a settentrione dalle rupi di S. Vito e S. Emiliano che sono a picco sulle contrade Difesa, Mancipa, Marcatello e Carbone, e si ergono come contrafforti del centro abitato, chiudendo in un’angusta e profonda gola, “ucca d’infiernu” (bocca d’inferno) il torrente Piletto (DI FRANCESCA, op. cit., p.11).

Probabilmente, alcuni dati che emergono della toponomastica ufficiale e popolare del luogo, potrebbero essere significativi ancora oggi per individuare chiare etimologie di origine greca specialmente in alcuni oronimi presenti nel territorio:

Almizzo: (IGM 260 IV N.O.) da Armizzo da gr. ‘collinetta’ dim. di Armo ‘altura, colle’ da gr. ant. ‘giuntura’ con spostamento regionale dell’accento per probabile influenza di lat. armus ‘spalla, braccio, da luc. armu ‘roccia scoscesa’ (Caracausi I, p. 77).

Archi Fàraci: da Arci- indicante una grandezza straordinaria e Farace, da gr. ‘incisione’ (Caracausi I, p. 580). Contrada attestata già dal sec. XVI e individuata tra gli ex feudi di Almizzo e Carbone.

Biviscala: etimologia non attestata, prob. composta da lat. bivis e gr. kalòs ‘buono da bere’. Sorgiva d’acqua potabile attestata nel territorio dell’ex-feudo delle terre Comuni.

Dìpilo (pizzo): (IGM 260 IV N.O.) Dìpilo da gr. ant. ‘che ha due porte’ EG I 48 (Caracausi I, p. 537)

Gallefina: (IGM 260 IV N.O.) da Callìfina da Califfe con suffisso caratteristico del greco regionale per la formazione di nomi di donna ‘domina Maria de Calafina’ (Caracausi I, p. 672). Contrada attestata nel territorio dell’ex-feudo dei Pianetti → Aliefina.

Gargiulumeni: forse da ar. da ar. harg e al-imam ‘l’imano’ (Caracausi, I, p. 683); o anche da Arci- indicante una grandezza straordinaria o anche da càrgia termine connesso con ar. harš ‘bosco, foresta’ pl. hurūš ‘pianure coperte di rocce basaltiche’ (Caracausi I, p. 301); la seconda parte prob. derivare da linèri cfr. bov. ‘terreno coltivato lungo un fiume’ o linàri da lat. mediev. linaria o da pl. di gr. tardo e med. ‘lino’ da cui bov. linari che indicherebbe la ‘pianta di lino’ (VS, Caracausi I, p. 864) ma anche da meli da gr. ant. ‘miele’ (Caracausi II, p. 1001); quindi bosco di lino o di miele. Individuabile come il corso d’acqua vicino la contrada Prizzitano in territorio dell’ex feudo San Giorgio. Varianti: Ancameli, Gargialomeni, Gargiolomeli, Gargi lo meli, Gargilumeni, Scargilumenj.

Grattàra (grotta): prob. da gr. ant. kràter ‘tazza, boccale’ nel significato geomorfico di ‘conca, bacino’ (Caracausi I, p. 754).

Màncipa: (IGM 260 II S.O.) variante metaplastica di gr. tardo ‘fornaio’, a sua volta dal lat. manceps (Caracausi II, p. 931). Valle attestata nel territorio dell’ex feudo delle terre Comuni e contrada Difisa.

Prastio: (IGM 260 IV N.O.) dal greco ‘sobborgo, podere suburbano’ (Caracausi II, p. 1278). Contrada attestata nell’ex feudo delle terre Comuni e indicata come la valle sottostante la chiesetta del SS. Crocifisso alla Scala.

Pantìta: var. Pantida, prob. dal personale gr. Pantite ant. nome di guerriero spartano (DNI) o anche dal latino Pontis iter nel significato di “Valle” o “Strada del ponte” in riferimento alla collocazione geografica. Contrada con corso d’acqua a carattere torrentizio attestata ed indicata tra le contrade di Prastio e Mandilo.

Puraci (M., Pozzo di): (IGM 260 IV N.O.) pl. di Placa da gr. mediev. ‘roccia liscia e piatta’ (Caracausi II, p. 1253); dalla delibera N. 156 del 31.07.1911 anche strada vicinale, via Purace (1.000 m.). Crestiera dei monti del massiccio roccioso madonita che, dal monte Pizzo Dipilo, arrivano al territorio di Galefina in territorio di Isnello chiamata popolarmente Praci.

Rappudi: (IGM 260 IV N.O.) derivato dal greco ‘verga, fusto’; otr. rapi ‘culmo, stoppia’ (EG I 74). Il suffisso indica abbondanza (Caracausi II, p.1333). Ex feudo al confine con il territorio di Cefalù.

Marco Fragale
(Università di Palermo)

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