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El mito de Dafni transformado en una cara de pietra

El mito de Dafni transformado en una cara de pietra

 

Esiste una roccia antropomorfa sulle cime a cresta della Prace, modellata dal vento e dalla neve. Dagli antichi abitanti di Gratteri era chiamata “a tièsta”, poiché molto somigliante ad un gigantesco volto o una testa di pietra che, dall’alto dell’ispida montagna, veglia solitaria su quell’ameno paesaggio. Su di essa, si narravano storie millenarie e miti di pastori, che oggi tuttavia in paese, non si ricordano più. Tutti conoscono invece, il medievale lavatoio di Cefalù – luogo di attrazione giornaliera per centinaia di turisti – noto per quelle gelide acque che, scorrendo da quindici bocche leonine, si riversano in un mare cristallino.

Secondo la tradizione, quel torrente di acque limpide e ghiacciate, chiamato Cefalino, avrebbe proprio la sua sorgente alla Prace, quel massiccio montuoso alle spalle del villaggio madonita “dei crateri”, dove si erge imponente e malinconico quel “volto” pietrificato. In realtà, esiste ancora oggi, una curiosa iscrizione in lingua latina, all’ingresso del suggestivo lavatoio di Cefalù, che rimanda il curioso visitatore ad un’antica leggenda siciliana. Scolpito in un cartiglio, si legge:

Qui scorre Cefalino, più salubre di qualunque altro fiume, più puro dell’argento, più freddo della neve.

Questa lapide, scritta da uno storico del Seicento, Vincenzo Auria, è stata collocata all’ingresso del lavatoio nel 1655 per volere degli stessi “giurati” (amministratori) dell’epoca. Dagli studi condotti in passato dal cefaludese Nico Marino sappiamo anche che, il nome di tale fiume, venne già citato, per la prima volta, da Giovanni Boccaccio nel 1335 nel “Libro dei monti e dei fiumi del mondo”, per poi essere ripreso, nel sec. XVII, dal giurista genovese Giovan Battista Spinola e infine adottato dal palermitano Vincenzo Auria.

Secondo la leggenda, il fiume Cefalino sarebbe stato generato dalle lacrime incessanti di una ninfa, pentita di aver punito con la morte, il tradimento dell’amato pastore Dafni, che venne trasformato in una pietra dal padre Mercurio. Di questo mito – raccontato in origine dai rapsodi greci – esisterebbero tuttavia diverse rivisitazioni conosciute nella stessa città di Cefalù. Diodoro Siculo (lib IV.84) narra che, Dafni era figlio del dio Ermes, messaggero dell’Olimpo, e della ninfa Dafnide, abbandonato da quest’ultima in un bosco di piante di alloro sui monti Erei (probabilmente il Monte Lauro nei pressi di Ragusa). Il bimbo venne trovato dai pastori che se ne presero cura insieme alle attenzioni di Apollo, Pan e Artemide che gli insegnarono a suonare e comporre poesie bucoliche.

Nell’antica Grecia

I pastori erano spesso anche dei poeti e Dafni fu considerato il creatore del canto bucolico, tanto da essere ricordato dallo stesso Virgilio nelle sue opere pastorali. Il giovane semidio, divenne un uomo bellissimo che si occupava del suo gregge suonando la zampogna, e intonando canti celestiali. Si dice che tutte le fanciulle si innamorassero di lui per il suo canto melodioso e tra queste, anche la ninfa Echemeide o Achenais, figlia della dea Giunone. I due innamorati si sposarono anche senza il consenso della madre che giurò di vendicarsi.

Un giorno il re Zeno invitò Dafni ad una festa per recitare i suoi carmi. Tutti i convitati ne rimasero ammaliati, persino la regina Clifene che si invaghì perdutamente del poeta, tanto che organizzò una seconda festa e diede al pastore un potente vino mischiato ad alloro che per gli antichi aveva effetti afrodisiaci. La regina si approfittò del suo sbandamento portando il giovane nella sua alcova dove fu consumata la passione adultera. In questo modo Dafni tradì la promessa di fedeltà alla sua sposa, la ninfa Echemeide e per questo, venne accecato dalla suocera Giunone, con il tipico castigo che i siculi infliggevano agli spergiuri. Così, il giovane pastore iniziò a vagare cieco e disperato per i monti e le campagne della Sicilia, suonando tristi canzoni, fino a quando, nei pressi di Cefalù, pose fine alla propria vita gettandosi da una roccia.

A quel punto, suo padre Ermes, impietositosi lo trasformò in quella rupe che, secondo la tradizione cefaludese, sarebbe da identificare proprio nella Rocca di Cefalù o in una scogliera (oggi inserita nel registro dei luoghi e dell’identità della memoria della Regione Siciliana). Per molto tempo ancora egli fu ricordato, e in sua memoria furono offerti sacrifici in prossimità di una fonte. Un’altra versione, quella più antica risalente pare a Stesicoro, vede protagonista la ninfa Naide o Nomia che lo accecò per vendicarsi di un’infedeltà subita. Dafni, abbattuto per aver perso la vista, si gettò dunque dall’Olimpo trasformandosi nella roccia che sovrasta Cefalù.

La ninfa, a sua volta, nel vedere il gesto disperato del suo sposo, pentitasi, iniziò a versare un gelido pianto che alimentò un bacino sotterraneo, che dalla montagna della Prace, scende a valle fino a riversarsi nel mare di Cefalù. Come dice il Ciaceri, la leggenda di Dafni è uno di quei casi in cui il culto indigeno preesistente è stato riadattato dalla successiva civiltà greca. È per questo che ne vengono riportate diverse versioni. Dafni sarebbe infatti la personificazione della vita pastorale degli antichi Siculi che vivevano nell’entroterra siciliano (Emanuele Ciaceri, Culti e miti nella storia dell’antica Sicilia, 1993).

Ad ogni modo, in tutte le versioni dello stesso mito il bel pastore Dafni emerge come l’inventore della poesia bucolica, morto suicida e poi pietricato. Potrebbe essere questo dunque, il mito obliato di quel volto di pietra che si erge solitario sulle pendici della Prace? A noi piace pensarlo, e perché no, che sia ancora lì a dominare dall’alto la costa tirrenica, in un paesaggio agreste e incontaminato.

Bibliografia: Anna Ferrari, Dizionario di mitologia greca e latina, Torino, UTET, 2002, Emanuele Ciaceri, Culti e miti dell’antica Sicilia, Catania, 1911.

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